Viviamo in un mondo in cui acquistare è diventato più facile che mai. Un clic, una consegna rapida, una nuova moda da seguire. Ma dietro ogni acquisto, dietro ogni oggetto usa-e-getta, c'è una lunga catena invisibile fatta di sfruttamento del lavoro, talvolta sfruttamento del lavoro minorile, depredazione delle risorse e, infine, una montagna di rifiuti.

Spesso tutto questo accade lontano dai nostri occhi, in Paesi già segnati dalla povertà, dall’instabilità economica e da una disuguaglianza storica che oggi assume nuove forme.

Cos’è il consumismo e perché è un problema globale

Il consumismo non è solo un’abitudine: è un modello culturale e socioeconomico in cui il valore delle persone e delle nazioni viene misurato in base a ciò che consumano. Nelle economie occidentali, la produzione e l’acquisto incessante di beni – spesso superflui e destinati a durare poco – sono diventati il motore di crescita economica, ma anche la causa di una crisi climatica e ambientale globale e di un’accelerazione delle problematiche sociali senza precedenti.

Il problema non è solo quanti oggetti compriamo, ma come vengono prodotti e dove finiscono una volta considerati “inutili”.

Si parla più nello specifico di iperconsumismo per identificare l’esasperazione di un fenomeno che diventa a tutti gli effetti insostenibile, sia per le conseguenze sui paesi maggiormente a rischio che per la società e il mondo nel su complesso.

Consumismo e iperconsumismo: cosa sono e in che contesti si manifestano

Il consumismo è un modello economico e culturale fondato sull’acquisto costante di beni e servizi, spesso oltre i bisogni reali delle persone. Si basa sull’idea che il benessere individuale e collettivo dipenda dalla capacità di consumare, e che ogni desiderio possa e debba essere soddisfatto attraverso il mercato. In questo sistema, il valore delle persone si misura spesso in base a ciò che possiedono.

L’iperconsumismo, invece, è la forma estrema del consumismo: non solo si consuma per necessità o per desiderio, ma si consuma in maniera compulsiva, veloce, non sostenibile. È un comportamento incentivato da pubblicità incessante, mode effimere e meccanismi digitali che spingono all’acquisto impulsivo (come l’"acquista ora" o il "carrello intelligente").

AspettoConsumismoIperconsumismo
ObiettivoSoddisfare bisogni/desideriAccumulare per abitudine o status
Volume di consumoElevato, ma ancora legato a una logica funzionaleEccessivo, impulsivo, spesso scollegato dall’utilità
Durata dei beniMedio-bassaMinima, spesso usa-e-getta
Impatto sociale e ambientaleSignificativoDevastante e sistemico

Consumismo e iperconsumismo: contesti in cui si sviluppano

Il fenomeno si sviluppa con caratteristiche differenti tra paesi ricchi e poveri. Nello specifico:

  • Paesi ad alto reddito: qui il consumismo e l’iperconsumismo sono più diffusi. Le economie mature basano la crescita sul consumo interno e sul costante ricambio di beni. Qui il marketing, la moda e la tecnologia si evolvono rapidamente, alimentando un ciclo continuo di produzione e scarto.
  • Paesi emergenti: in questi contesti, il consumismo sta crescendo rapidamente con l'espansione della classe media. Il desiderio di imitare i modelli occidentali porta spesso a dinamiche di consumo accelerato, senza però avere le stesse infrastrutture per gestirne le conseguenze (come il riciclo o la regolamentazione ambientale).
  • Paesi a basso reddito: questi Paesi sono raramente protagonisti diretti del consumismo, ma spesso ne subiscono le conseguenze: dalle condizioni di sfruttamento nella produzione alla gestione dei rifiuti esportati dall’Occidente. È qui che si manifesta più chiaramente l’ingiustizia del modello consumista globale.

Fast fashion e iperconsumismo: l’industria della moda a basso costo che costa troppo

Il settore del fast fashion è uno degli esempi più evidenti di come il consumismo si traduca in ingiustizia. Le grandi catene producono collezioni sempre più frequenti a costi stracciati, spingendo i consumatori a comprare vestiti di bassa qualità che durano poco. Ma questi prezzi bassi si pagano altrove: nei Paesi produttori, milioni di lavoratrici – spesso donne e giovanissime – lavorano in condizioni disumane, con orari massacranti, salari da fame e nessuna tutela.

In Bangladesh, ad esempio, l’industria tessile rappresenta oltre l’80% delle esportazioni del Paese, ma gran parte delle lavoratrici vive sotto la soglia di povertà. Gli incidenti mortali, come il crollo del Rana Plaza nel 2013, sono il simbolo tragico di un sistema che mette il profitto sopra la vita.

E quando i vestiti diventano rifiuti? Molti finiscono nelle discariche dei Paesi del Sud globale, oppure invadono i mercati locali, danneggiando anche l’economia dei piccoli produttori tessili locali.

E-waste: la scia tossica della tecnologia usa-e-getta

Ogni anno, il mondo produce oltre 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, una cifra in continua crescita. Smartphone, tablet, computer, piccoli elettrodomestici: prodotti pensati per essere rapidamente sostituiti o difficili da riparare. È il regno dell’obsolescenza programmata, dove la durata breve degli oggetti genera un flusso continuo di scarti.

Il problema è che gran parte dell’e-waste viene esportato illegalmente nei Paesi del Sud del mondo, aggirando le normative internazionali. Qui, nelle periferie delle grandi città africane o asiatiche, i rifiuti elettronici vengono smontati e bruciati senza alcuna protezione, esponendo lavoratori e bambini a sostanze tossiche come piombo, mercurio e cadmio.

Questa forma di colonialismo dei rifiuti non solo inquina territori già fragili, ma trasforma le comunità locali in discariche a cielo aperto della nostra tecnologia.

Acquisti low cost: il trionfo dell’usa-e-getta

Un altro settore in crescita è quello dell’oggettistica a basso costo: articoli per la casa, decorazioni, giocattoli, gadget elettronici, accessori… spesso prodotti in massa in Asia e venduti a prezzi irrisori nei mercati e nei grandi store internazionali. Questi oggetti hanno vita brevissima: si rompono facilmente, non si riparano e diventano rapidamente spazzatura.

Il ciclo è sempre lo stesso: risorse naturali estratte in modo intensivo, lavoratori, spesso bambini, sfruttati per la produzione, consumo rapido nei Paesi ricchi e smaltimento nei Paesi poveri. In molti casi, questi prodotti non sono nemmeno riciclabili, aumentando la pressione sulle discariche e sugli ecosistemi.

È un consumo che soddisfa un bisogno effimero, ma genera un impatto reale e duraturo, soprattutto per chi non ha scelto di partecipare a questo sistema.

Waste Consumerism: un circolo vizioso da spezzare

Il concetto di waste consumerism descrive proprio un sistema in cui il consumo e la produzione di beni a breve termine sono strettamente legati all’accumulo sistematico di rifiuti. Questo modello non tiene conto dei limiti del pianeta né della dignità umana.

L’economia circolare, il riuso, la riparazione e la responsabilità estesa del produttore sono strumenti per ridurre l’impatto, ma da soli non bastano. È fondamentale un cambio di mentalità: consumare meno, meglio, e con maggiore consapevolezza dell’origine e della destinazione dei beni.

Waste Colonialism: quando i rifiuti diventano un problema degli altri

Dopo la fase di consumo, gli oggetti diventano rifiuti. Ma dove finiscono davvero?

La risposta è inquietante: una gran parte dei rifiuti elettronici, tessili e plastici dei Paesi ricchi viene esportata illegalmente o legalmente nei Paesi a basso reddito, in Africa, Asia e America Latina. Qui si manifesta il fenomeno noto come waste colonialism: una forma moderna di colonialismo ambientale in cui le nazioni industrializzate scaricano i propri scarti su territori e comunità che non hanno né responsabilità nella loro produzione né gli strumenti per gestirli in modo sicuro.

In Ghana, ad esempio, la discarica di Agbogbloshie è diventata tristemente famosa come uno dei luoghi più tossici al mondo, dove rifiuti elettronici provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti vengono smontati a mano e bruciati, spesso da bambini, che vengono esposti a metalli pesanti e sostanze cancerogene.

Contro l’iperconsumismo e le sue conseguenze, il cambiamento parte dalle nostre scelte

Rivedere il nostro rapporto con gli acquisti, con i rifiuti, con la moda e con la tecnologia è un passo necessario. La sostenibilità non è un lusso, ma una responsabilità verso chi non può scegliere.

Il cambiamento non richiede perfezione, ma consapevolezza. E ogni piccolo gesto – anche un’adozione a distanza – può fare una grande differenza.

Attraverso l’adozione a distanza, ActionAid offre un’alternativa concreta: sostenere le comunità più vulnerabili nei loro percorsi di autodeterminazione, istruzione e tutela dei diritti. Non è solo un gesto di solidarietà: è un modo per spezzare il ciclo di disuguaglianza che alimenta il consumismo globale.

Ogni bambino sostenuto, ogni famiglia rafforzata, ogni comunità che conquista l’accesso a diritti fondamentali come l’istruzione e il lavoro dignitoso, è un tassello verso un mondo più giusto.